Ero seduto a fumare davanti a delle tombe, in un tempio buddista dove da poco era stato cremato mio suocero giapponese. Ero in regola visto che mi trovavo in una piccola smoking area allestita allo scopo. La cerimonia era durata tutta la mattina, con preghiere, saluto al defunto, cremazione e pranzo. Dopo il pranzo, svoltosi in una grande stanza con vista tombe, ero uscito con la scusa di prendere una boccata di aria.
Ho volontariamente evitato di andare ai funerali dei miei genitori, un pò per evitarmi ulteriore pena, un pò perchè non capivo a cosa servisse. Ero molto giovane e sicuro che i miei tre fratelli tutti più grandi di almeno quindici anni, avrebbero svolto egregiamente tutte le incombenze del caso. Immagino comunque che, almeno nelle linee principali, la cerimonia funeraria cattolica non si discosti troppo da quella buddista. L’unico aspetto che mi ha davvero sconcertato in quella buddista è stato quando, dopo la cremazione, ognuno dei presenti ha dovuto, munito di bacchette di legno come quelle del pranzo, prelevare le ossa rimaste intatte e deporle senza farle cadere all’interno dell’urna. Per il resto essendo tutta una novità per me il tempo era passato relativamente veloce ed interessante.
Non vorrei essere frainteso, l’apparente distacco con cui racconto l’episodio non corrisponde in alcun modo al mio stato d’animo, al contrario il mio spirito e tuttora oppresso da un forte senso di perdita e tristezza. Infatti, ed è di questo che vorrei parlare, l’attaccamento e l’affetto che provavo per Toshiiko, il mio suocero defunto, era fortissimo, al di là di ogni logica comunicativa.
Non sono portato per le lingue straniere (e forse nemmeno per quella italiana), prova ne è la mia scarsissima conoscenza del giapponese, nonostante i quasi sedici anni passati insieme a mia moglie e ai numerosi viaggi in Giappone. Questa mancanza però non ha impedito la comunicazione con Toshiiko che al contrario è stata una tra le più intense e profonde avute con essere umano (quella con i gatti è un altra storia); una comunicazione fatta prevalentemente di gesti ed azioni più che di parole. Anche l’inglese era impraticabile vista la sua scarsissima conoscenza da parte di Toshiiko.
Ne ho avuto piena consapevolezza proprio mentre guardavo quelle tombe silenziose su cui si posavano, di tanto in tanto, uccelli a me sconosciuti. E’ li che mi sono chiesto se fossero davvero necessarie le parole per comunicare i propri sentimenti. Ho sempre pensato che il linguaggio fosse più un subdolo avversario con cui fare i conti che un alleato di cui fidarsi.
Forse le uniche parole che potrei usare senza essere frainteso sono: “ti voglio bene Toshiiko e mi mancherai moltissimo”, ma per non rischiare appenderò soltanto una delle sue foto, da me e da lui preferite, davanti alla mia scrivania.